Forse non voleva compiere un passo falso. Si spiegherebbe così il motivo che ha indotto Gavin DeGraw a metterci cinque anni nel realizzare il nuovo album, intitolato semplicemente con il suo nome e cognome. Precauzione comprensibile, soprattutto quando alle spalle si ha un esordio fulminante come Chariot, che ha piazzato oltre un milione di copie per il mondo.
Un bel colpo per Gavin, compiuto appunto nel 2003, dopo una giovinezza 
trascorsa nel sobborgo di South Fallsburg, a due ore da New York, a coltivare la sua passione per la musica. Passione che, comprende subito l’artista, se vuole avere qualche sbocco concreto può solo trovarlo nella vicina metropoli.
Così Gavin inizia a suonare ovunque gli capiti tra i grattacieli newyorkesi: bar, locali after-hour, club, ristoranti. A poco a poco, ad ascoltarlo, si raccoglie un pubblico sempre più numeroso, che acquista a fine esibizione il cd autoprodotto con alcuni suoi pezzi registrati durante le serate.
È l’antipasto al sospirato contratto discografico che il cantautore firmerà qualche tempo dopo e che gli consentirà di incidere Chariot e scalare le classifiche internazionali. Ora è il momento di fare il bis e Gavin DeGraw ha le carte, anzi, le canzoni in regola per riuscirci. Sono brani dalla felice scrittura pop, a cui l’artista ha aggiunto qui e là dei sapori più rock, evitando così l’effetto clonazione con il primo album.
Mondo Erre ha incontrato Gavin a Milano per saperne di più. Inseparabile berretto in testa (lo tiene anche nelle foto), sorriso sul volto, ha risposto volentieri alla raffica di domande.
L’intervista
Nel disco d’esordio si scelgono le canzoni composte da una vita. Nel secondo, il tempo non dà la stessa possibilità. Quanta pressione hai "sentito" nel doverlo incidere?
In realtà, non ho avvertito una pressione particolare nel realizzarlo perché avevo alle spalle un repertorio piuttosto ampio a cui attingere. Alcuni brani risalgono addirittura a prima del contratto e ovviamente li ho ritenuti ancora validi. Altri, invece, sono stati scritti appositamente per questo album. In ogni caso, devono soddisfarmi pienamente, esprimere ciò che mi passa nell’animo.
Le canzoni "parlano" soprattutto d’amore. Quanto sono autobiografiche?
Solo alcuni pezzi raccontano vicende che ho vissuto di persona. Altre volte, invece, provo a mettermi nei panni di qualche amico o conoscente a cui è capitata una storia particolare, e cerco di capire le sue reazioni. Mi preme, infatti, più che raccontare quanto accaduto, cogliere le sensazioni di quella vicenda. È come un quadro impressionista: non si tratta di dipingere un’immagine nel dettaglio, quanto di portare in evidenza le emozioni con colpi di colore.
Come mai questo secondo lavoro è più energico del primo?
È scaturito dal lungo tour che ho fatto dopo l’uscita di Chariot. Suonare dal vivo ha messo in evidenza il mio lato più vitale e ruvido, e ho cercato di riproporre quell’atmosfera in studio al momento di registrare i nuovi pezzi. Inoltre, la mia prima vera passione musicale è stata per il rock classico e quel genere è comunque nel mio dna.
Non mancano, però, le ballate.
Non ho certo stravolto il mio stile. Mi piace, però, considerare questo lavoro come una specie di completamento del precedente, in cui si rivelano le mie due personalità. Chariot era più delicato, questo possiede una maggiore incisività. Tuttavia, ci sono alcune canzoni che sono sicuramente più intime rispetto al mio primo disco.
In un mare di proposte discografiche, c’è un segreto per riuscire a distinguersi?
Io faccio molta attenzione alla scrittura della canzone, a trovare un mio stile, senza per questo seguire necessariamente i gusti del pubblico. Certo, è importante avere persone che ti ascoltino, altrimenti la tua carriera finisce subito, ma il compito di un artista è anche quello di educare la gente e per questo cerco sempre degli ingredienti diversi nel proporre i miei brani.
Quanto è importante la melodia di una canzone per te?È fondamentale, parte tutto da lì. Mi stimola l’idea di far conoscere un brano al pubblico grazie a una bella melodia, cosa che in America, oggi, sta diventando sempre più difficile. D’altra parte, è un mercato abbastanza deprimente: c’è poca qualità, i testi sono scontati o violenti, i dischi suonano quasi tutti uguali.
Forse tanti artisti pensano solo ad apparire più che a suonare.
È possibile… Io non faccio di certo parte della schiera. Anche se diventassi una celebrità, non cambierebbe di una virgola il mio modo di affrontare la musica. Non m’importa di essere famoso, ma il motivo per cui lo sono. Essere riconosciuti per strada non vuol dire che ciò che si fa sia altrettanto valido.
Preferisci suonare in un teatro o in uno spazio più grande?
Sono situazioni molto diverse tra loro. Un teatro, o un locale più piccolo, permette di instaurare certamente un rapporto migliore con il pubblico. Il tipo di energia, però, che si prova a salire sul palco di fronte a migliaia di persone è molto forte. Forse soddisfa anche il proprio ego: l’artista cerca l’approvazione di ciò che fa e vedere tanta gente che viene ad ascoltare le tue canzoni dà grande soddisfazione.
©Mondo Erre - Claudio Facchetti
