LA SCIENZA L’AMBIENTE
La terra: un unico ecosistema
RACCOLTA DIFFERENZIATA AUTOMATICA
Mark Shantzis ha escogitato un sistema di raccolta differenziata della spazzatura per grandi palazzi. Opportunamente modificato, il camino della spazzatura da ogni piano porta ad un carosello girevole di sei contenitori posti uno accanto all’altro come le fette di una torta. I residenti controllano e comandano la rotazione del contenitore con un pannello di comandi posto vicino allo sportello dello scivolo che ha un bottone per ciascuna categoria di rifiuti. Un microprocessore chiude tutte le porte agli altri piani e ruota il carosello posizionando il contenitore adeguato sotto lo scivolo e segnala quando un settore è pieno.
Una goffa sfera gialle, una boccia metallica larga tre metri, sena braccia, che galleggia in un tratto di mare qualsiasi. Dall’aspetto non si direbbe nulla di importante. Eppure è una sofisticatissima boa-robot capace di compiere automaticamente 4300 operazioni diverse ogni giorno.
Annusa l’aria, assaggia l’acqua, misura le oscillazioni e la potenza delle onde. Immagazzina puntigliosamente nella sua memoria (il suo cuore è un computer a batterie) per circa tre mesi, fino a quando un ricercatore su un gommone la raggiungerà por portarsi via tutti i dati raccolti e analizzati con calma in laboratorio.
Questa impacciata boa gialla è – tecnicamente parlando – una “Stazione automatica di rivelava mento perr monitoraggio ambientale”
La scorsa estate, insieme ad alcune sue gemelle, è stata piazzata nel Mar Mediterraneo per tenere sotto controllo il grado di inquinamento. Queste sofisticate apparecchiature, sviluppate dall’Enea in collaborazione con il Consiglio Nazionale delle Ricerche, sono un concreto esempio dell’aiuto che la tecnica può dare all’ambiente: per alcuni, invece, ambiente e tecnica sono due cose che non possono andare d’accordo. È vero? Tutt’altro.
MIGLIORARE PER RISPARMIARE
La miglior difesa della natura si basa anche sul progresso tecnologico e la vita quotidiana è ricca di esempi.
La marmitta catalitica, per citarne uno. Non sarà un toccasana, ma è pur sempre un modo per limitare le emissioni di veleno dai motori a scoppio.
Nel frattempo, la ricerca, muovendosi su più fronti (auto elettriche, combustibili a base vegetale, motori a idrogeno liquido), permetterà la realizzazione di veicoli ad inquinamento zero. Anche chi fino a poco tempo fa era contrario, se ne è reso conto e sono sempre più numerosi i progetti di ricerca sperimentale dedicati alla tutela della natura.
Il premio Nobel per la chimica 1994 è stato proprio a uno di questi lavori: gli studi sui carbocationi (composti molecolari del carbonio molto reattivi) del chimico ungherese George Olah hanno permesso di produrre la benzina verde.
Inoltre salvare l’ambiente per mezzo della tecnica è quasi sempre un risparmio. Se tutta una città usasse lampadine ad incandescenza (che costano quattro volte quelle normali, ma durano anche otto volte di più e consumano la metà) con l’energia che si risparmia si potrebbe spegnere una centrale termonucleare di medie dimensioni. Cioè si eviterebbe l’immissione quotidiana di qualche tonnellata di fumi tossici nell’atmosfera.
MISURARE
Quando si affrontano i problemi dell’ambiente, una delle cose più importanti è sapere il “quanto”. Quanto è largo il buco dell’ozono e quante radiazioni dannose lo attraversano, quanti animali sopravvivono di una determinata specie, quanto è inquinato un fiume, quanto l’aria di una città.
La misura esatta di queste cose è indispensabile per stabilire il livello di allarme e capire quando questi fenomeni da “situazione normale” diventano “problema ambientale”. Non sempre bastano misurazioni locali. Servono rilevamenti su larga scala, perché i venti spostano le nubi di gas velenosi e le maree mescolano le acque inquinate.
Visto così il nostro pianeta diventa un unico ecosistema a volte fragile, a volte straordinario nella sua ostinazione a vivere.
L’ipotesi che la Terra sia un unico organismo biologico è stata avanzata nel 1979 dallo scienziato inglese Jim Lovelock. Chiamò “Gaia” (il nome che i greci davano alla madre Terra) questo enorme essere vivente. Secondo Lovelock, Gaia sarebbe capace di autoregolarsi e di difendersi, nonostante gli attacchi disastrosi dell’uomo.
C’è da sperare che Lovelock abbia ragione. Intanto molti scienziati hanno pensato bene di tenere sottocchio le condizioni generali di salute del pianeta con l’aiuto di satelliti meteorologici-ambientali.
Con l’uso di questi strumenti ora sappiamo con certezza che le valutazioni fatte 10/15 anni fa sulla salute del pianeta erano un po’ pessimistiche.
Come tutti i suoi abitanti, anche la Terra respira e rilascia anidride carbonica nell’atmosfera. Con l’impiego dei satelliti alcuni ricercatori sono riusciti a monitorare questo respiro, creando al computer una mappa che fornisce immagini geografiche molto precise del fenomeno. Questa speciale cartina della Terra aiuterà a comprendere gli effetti della deforestazione tropicale e i cambiamenti del ciclo dell’anidride carbonica tanto nei piccoli quanto nei grandi spazi.
“Le piante inspirano anidride carbolica durante la fotosintesi”, spiega Christopher Potter del Centro di ricerca Ames della Nasa, “mentre i microrganismi che sono nel terreno emettono CO²”. Utilizzando i dati dei satelliti, questo speciale programma rivela, durante le diverse stagioni, l’andamento di questi due fenomeni. Una prima sorpresa è data dal fatto che il computer ci dice che ben il 60% dell’anidride carbonica presente nell’atmosfera è prodotta e riassorbita dalle latitudini tropicali; almeno il 10% in più di quanto si era calcolato precedentemente.
OCCHI PUNTATI
Negli ultimi cinque anni sono stati lanciati numerosi satelliti per lo studio dell’ambiente. Gli occhi elettronici che sorvegliano il nostro pianeta sono ormai una ventina, in parte destinati all’osservazione meteorologica, in parte attrezzati per sorvegliare il buco dell’ozono, la deforestazione, l’avanzamento dei deserti, la formazione delle piogge acide e controllare l’innalzamento del livello del mare causato dalla fusione dei ghiacci polari.
Anche durante la più gravi e recenti catastrofi ecologiche i satelliti hanno svolto un ruolo determinante per la valutazione dei danni e il coordinamento degli interventi. Nel 1986 si è potuta valutare la pericolosità della nube radioattiva sprigionata dall’esplosione del reattore nucleare di Chernobyl e seguirne lo spostamento. Durante la guerra del Golfo (e in altri incidenti petroliferi) le aree inquinate sono state immediatamente circoscritte con i satelliti e si sono potute fare previsioni sullo spostamento delle chiazze di greggio in base ai venti o alle maree.
LE NUOVE PROFESSIONI VERDI
Le nuove politiche di salvaguardia dell’ambiente che lentamente stanno prendendo piede in tutti i Paesi occidentali hanno provocato l’esigenza di nuove figure professionali e creato nuovi posti di lavoro. Solo in Italia nel 1997 saranno 325 mila gli “impiegati verdi”, con un incremento di quasi il 70% rispetto a 10 anni or sono.
Nei prossimi anni serviranno periti che valutino l’impatto ambientale di un nuovo macchinario, di una nuova fabbrica, di una nuova strada o ferrovia, architetti che progettino i giardini nelle città, manager che gestiscano le aree protette, guardaparco che le sorveglino e guide che portino a spasso i visitatori. E ancora chimici che sappiano smaltire i rifiuti, informatici che sappiano aiutare a valutare i dati raccolti, veterinari, agronomi e biologi che sappiano migliorare lo sfruttamento delle risorse naturali. Non da ultimo, serviranno divulgatori che ad ogni livello educhino le persone ad un maggior rispetto per la natura.
L’aria, in città e in casa
VESTITI ANTISTRESS ELETTRICI
Si chiama “Filato Relax” e potrebbe essere la soluzione all’inquinamento elettromagnetico che rischi di contaminare quegli appartamenti pieni di elettrodomestici. Si tratta di un normalissimo tessuto dove la lana o il cotone è stato mescolato con una sottilissima fibra di carbonio.
“Con la collaborazione della Basf siamo riusciti a “spalmare” il carbonio su un filo di nylon di supporto, del diametro de appena 55 millesimi di millimetro”, spiega Giuliano Coppini, inventore del filato Relax, “e a impiegarlo con gli altri filati nella normale produzione di serie. Basta il 6% di tessuto Relax e maglioni e camicie al carbonio sono in grado di proteggere il corpo umano dalle radiazioni elettromagnetiche di media intensità.
Per le strade di una città i nemici in agguato sono l’ossido di carbonio e il biossido di zolfo o di azoto. Negli Stati Uniti la mortalità da malattie croniche polmonari cresce del 6% ogni anno. In Europa, in molte città, la densità dell’anidride solforosa e degli scarichi emessi dalle automobili e dalle caldaie per il riscaldamento domestico ha ormai raggiunto i 250 microgrammi al metro cubo in 24 ore con punte oltre i 300. A 400 microgrammi i disturbi (tosse e infiammazione delle vie respiratorie) diventano gravi al punto da doversi ricoverare in ospedale. Sempre nella Cee in vent’anni è raddoppiato il numero di chi soffre di bronchite cronica (da uno su 3550 a uno su 1500 cittadini); lo stesso accade per chi soffre d’asma: 2 milioni e mezzo di persone, in buona parte bambini.
Cosa fare? Inquinare meno. Cioè ridurre le emissioni di veleni nell’aria. Generalmente tutte le colpe vengono addossate all’auto che però se le merita fino a un certo punto. Secondo gli studi dell’Epa (l’ente nazionale degli Usa per la protezione ambientale) i motori scaricano nell’atmosfera solo il 10% dell’anidride carbonica responsabile dell’effetto serra e il 15,5% dei veleni che causano le piogge acide, mentre sono responsabili del 75% dell’ossido di carbonio presente nell’atmosfera, nonché del 48% degli ossidi d’azoto, del 3% degli ossidi di zolfo e del 13% di altri gas. Il resto è opera dei camini delle case e delle ciminiere delle fabbriche.
Volendo, la tecnologia offre depuratori in grado di abbattere quasi tutti i tipi di emissioni velenose. Volendo. Perché, se è vero che tali depuratori costano, è anche vero che in molti Paesi non ci sono leggi abbastanza severe che ne obblighino l’installazione e tanto meno sono previsti sconti sulle tasse per chi li acquista. E più facile intervenire con misure di emergenza come le targhe alterne o il blocco della circolazione. Ma queste soluzioni tamponano la situazione solo per qualche settimana, e non risolvono di certo il problema.
LA MARMITTA
Un passettino avanti si è fatto con la direttiva Cee del luglio 1989 che sancisce che tute le auto di nuova produzione, dal 1° gennaio 1993, non possono emettere più di 2,72 grammi di ossido di carbonio per chilometro e non più di 0,97 grammi tra idrocarburi e ossido di azoto.. Vale a dire che tutte le auto dovranno essere dotate di marmitta catalitica. Mentre in Germania la auto catalizzate sono quasi il 40% di quelle circolanti, in Italia non abbiamo ancora raggiunto il 2% (la media Cee è del 10%).
Il catalizzatore è un piccolo laboratorio chimico: si monta nella parte finale del sistema di scarico di un’auto (la marmitta, appunto) e favorisce una reazione chimica che trasforma i gasi di scarico. Strutturalmente è costituito da un cilindro di acciaio inossidabile che contiene un elemento di ceramica a forma di nido d’ape. I gas passano in una miriade di alvei (la cui superficie complessiva è maggiore di quella di due campi di calcio) rivestiti di palladio e platino. Una volta raggiunta la temperatura di regime del motore (300 gradi circa) questi due elementi provocano l’ossidazione dell’ossido di carbonio e degli idrocarburi non bruciatgi trasformandoli in anidride carbonica e vapore acqueo. Nelle marmitte più sofisticate vi è anche il rodio che favorisce la riduzione dell’ossido di azoto in molecole doppie di azoto puro.
Affinché la marmitta catalitica possa funzionare bisogna usare benzina senza piombo (il piombo dei normali carburanti ricoprirebbe gli alvei della marmitta rendendola inefficace) e avere un rapporto sempre ottimale della miscela fra aria e benzina. A questo ci pensa la sonda lambda e l’iniezione elettronica. La sonda si trova prima del catalizzatore, ha una base in ceramica rivestita di platino e di ossido di zirconio. Quando registra una composizione sbilanciata della miscela di carburante avverte subito la centralina che correggerà l’iniezione.
Ma il modo migliore per contenere l’inquinamento automobilistico resta la riduzione del traffico e lo sviluppo del trasporto collettivo sui mezzi a trazione elettrica, come i treni e le metropolitane. Nel frattempo, per limitare i danni non si può fare a meno dell’auto, si può pensare solo a motori più puliti. La chimica si sta dando da fare per sviluppare carburanti di origine vegetale, ricavati dalla soia, dal mais e dalle barbabietole.
A MANTOVA PER DIVENTARE INGEGNERI DELL’AMBIENTE
L’Università di Pavia ha attivato a Mantova il primo corso di laurea breve in Ingegneria dell’ambiente e delle risorse. Con un corso di studi di circa tre anni, si acquisiscono le nozioni di tutela ambientale (progettazione con materiali alternativi, riciclaggio e smaltimento dei rifiuti, risparmio energetico…) che renderanno i nedodiplomati in grado di collaborare alla costruzione di edifici, ponti strade con il minimo impatto sulla natura.
LE STRADE
Un’altra soluzione ci viene nuovamente offerta dalla natura. Poco prima dell’estate, lungo l’autostrada Torino-Bardonecchia (subito fuori l’abitato di Avigliana) sono state installate dodici vasche i vetroresina del diametro di due metri ciascuna. Sono servite per il primo esperimento italiano su vasta scala di biopolishing, la depurazione dell’ambiente tramite piante selezionate in laboratorio. In un’area di 25 mila metri quadrati l’Orto botanico e l’Università di Torino, l’Enea e le Università di Parma e di Sheffield (Gran Bretagna) stanno sperimentando l’efficacia di alcune piante acchiappasmog.
Si tratta di alcune specie di arbusti che tollerano il metallo. Sono vegetali particolarmente “voraci” di piombo, nichel, cadmio, rame e zinco. Serviranno per studiare la ricaduta di questi scarichi in base al vento. L’obiettivo dei ricercatori è quello di quantificare la fame di inquinanti per ogni pianta. “Ed è ciò che faremo nei prossimi tre anni cercando di capire quali sono le specie migliori per ripulire parzialmente l’aria che circola nelle immediate vicinanze di una strada a intenso traffico”, spiega smorzando facili entusiasmi Marco Orsi, l’agronomo che sta portando avanti il progetto. “Da una ricerca condotta da alcuni agronomi israeliani ci arrivano dati incoraggianti. Una di queste piante, l’azolla, assorbirebbero il 5% del suo peso secco. Un risultato decisamente interessante, che fa ben sperare circa l’utilizzo del verde come “purificatore” mirato dell’inquinamento atmosferico di alcune zone. Ma vogliamo verificare questa felce acquatica e altre piante si comportano alle nostre latitudini”. Durante i mesi estivi i tecnici hanno infatti analizzato le piante a intervalli regolari per pote studiare bene quanto realmente assorbono queste piante, nel corso della loro vita.
In ogni caso i vegetali con queste caratteristiche sono delle ottime spie dell’ambiente, molto più affidabili delle sofisticate centraline che annusano l’aria decifrandone la composizione chimica. Queste macchine, usate nei centri cittadini, sono continuamente da tarare e non sono così precise come si vuole far intendere all’opinione pubblica.
Per questo esperimento si spenderanno 25.000 lire al metro quadro per un totale di 700 milioni, esattamente la cifra necessaria per un’analoga operazione di rimboschimento. Mettere delle nuove piante resta comunque una cosa da fare per ripristinare il verde nella zona devastata dai cantieri. In più le piante hanno un’ottima capacità di assorbire i rumori del traffico veloce e funzionano anche come barriera antirumore.
I MICROBI MANGIA ESPLOSIVO
Nei poligoni militari dismessi (migliaia di ettari nei Paesi del decaduto Patto di Varsavia ) non si può coltivare nulla perché il terreno è saturo di esplosivi come il tritolo in polvere. In alcuni punti basterebbe trivellare per provocare un’esplosione. Alcuni scienziati di Berlino hanno sviluppato una coltura mista di batteri aerobici e anaerobici che cresce mangiando l’esplosivo. Fatta attecchire su queste aree, in pochi mesi è stato eliminato il 70% delle sostanze tossiche.
SALVIAMO IL MUSEO
Il biomonitoraggio (che ha origini antiche: già nel 1700 i geologi sapevano riconoscere le aree ricche di minerali in base alla flora che cresceva nei dintorno), utilizzato insieme all’ingegneria genetica, è anche una delle principali novità in fatto di tutela delle opere d’arte aggredite dall’inquinamento atmosferico e dalle piogge acide.
Poniamo il caso di un quadro prezioso minacciato da un fungo che, grazie all’aria insalubre che penetra dalle strade nelle sale di alcuni nostri musei, può proliferare indisturbato sulla tela.
La prima cosa da fare è analizzare il fungo, e dalle sue spore individuare i suoi punti deboli, cioè le sostanze chimiche in grado di distruggerlo senza danneggiare la tela o i colori del quadro.
Con l’ingegneria genetica, in laboratorio si può modificare un particolare microrganismo (vi sono alcuni batteri che sono estremamente malleabili in questo senso) rendendolo capace di produrre in gran copia sostanza chimica desiderata. Cosparsi sul quadro, questi microrganismi “rielaborati” potranno attaccare il fungo e bloccarlo sul nascere prima che danneggi irreparabilmente l’intera opera. Come un microscopico carro officina che contiene gli strumenti per riparare il guasto.
“Le tecniche di restauro attualmente in uso sono ancora limitate perché possono agire solo quando il danno è manifesto, intervenendo su quadri già compromessi”, spiega il professor Ralph Mitchell, docente di microbiologia ambientale all’Università di Harvard. “Se vogliamo salvaguardare dall’inquinamento le opere, dobbiamo adottare strategie di prevenzione. Già oggi è possibile utilizzare delle sonde genetiche per monitorare lo stato di salute di affreschi e statue d’ogni tipo, senza intaccare la roccia o l’intonaco”..
Nei prossimi 4/5anni, infatti, si potranno usare dei particolari batteri in grado di segnalare la presenza di alcune sostanze. Esiste un microrganismo, per esempio, che è sensibile all’acido solforico che si sviluppa su alcune statue dalla reazione della roccia con il biossido di zolfo dell’acqua piovana inquinata. Piazzando questo microrganismo sui monumenti più a rischio (e analizzando costantemente3) si potrà tenere sotto controllo lo stato di salute della pietra e salvare il monumento usando altri batteri che sono capaci di “mangiarsi” il biossido di zolfo.
INQUINAMENTO CASALINGO
Un altro capitolo dell’inquinamento atmosferico riguarda l’aria degli appartamenti di città. Cosa respiriamo quando passiamo la cera sui pavimenti? Quanto “inquinano” le tappezzerie e le vernici che usiamo per tinteggiare la pareti? E le fotocopiatrici? Tutti si preoccupano – giustamente- dell’aria che respiriamo quando usciamo di casa, ma nessuno pare interessarsi di ciò che inalano i nostri polmoni quando siamo tra quattro mura. Eppure l’uomo occidentale spende tra l’80 e il 90% della sua vita in ambienti domestici: casa, ufficio, scuola, palestra, teatri, musei…
Tra le mura di casa occorre tenere sotto controllo benzene, formaldeide e tricloroetilene, gas normalmente contenuti da tappeti, moquette, gomme , resine sintetiche, inchiostri e tinte, mobili in plastica o in legno trattato. Il tricloroetilene, più comunemente noto come Tce,, è il più pericoloso. Viene utilizzato per gli inchiostri (specie quelli delle fotocopiatrici), nelle lacche per capelli, nei nastri adesivi e nelle vernici in genere. Nel 1975 l’Istituto nazionale per la ricerca sui tumori degli Stati Uniti lo ha indicato tra i responsabili del cancro al fegato.
Dunque l’inquinamento di una stanza, va studiato e tenuto sotto controllo con la stessa attenzione dedicata allo smog delle città. A questo scopo è stato costruito, ed è entrato in funzione da circa un anno , “Indoortron”, un nuovo sofisticato laboratorio che la Cee ha allestito al Centro comune di ricerca di Ispra (Varese). È una camera di ricerca ambientale a doppia parete, con una capacità di 30 metri cubi in cui è possibile controllare la temperatura (da -15 a +40 gradi centigradi), l’umidità (20-90%), il ricambio e la composizione chimica dell’aria.
Indoortron è nato per misurare il potenziale inquinante di un mobile o di una stampante laser. Dopo un adeguato tempo di “esposizione”, un condotto aspira l’aria della camera e la stoffa su alcune sostanze assorbenti che raccolgono i vapori organici emessi dagli oggetti che i tecnici di Indoortron esaminano per determinare con precisione il tipo di inquinamento.
“Siamo in grado di compiere anche tutta una serie di analisi per misurare il tempo di decadimento di una data sostanza nociva e per verificare la capacità disinquinante di certi ritrovati”, spiega Maurizio De Bortoli, ricercatore del nuovo laboratorio di Ispra. “La cosiddetta tecnologia verde sta sviluppando molti nuovi prodotti per combattere l’inquinamento degli ambienti di lavoro. Per tutelare i consumatori, occorre che un’organizzazione al di sopra delle parti come la nostra sia in grado di controllare con precisione il funzionamento di tutti questi apparecchi”.
Senza suonare l’allarme (sarebbe esagerato, d’ora in avanti, guardare con sospetto i mobili di casa), dovremmo imparare tutti a dedicare maggior attenzione agli oggetti di cui ci circondiamo, verificando, prima di rinfrescare le pareti del soggiorno o di acquistare una nuova scrivania, che siano prodotti sicuri e non possibili fonti di inquinamento indoor.
LE PIANTE CI AIUTANO
Accanto alla prevenzione è ancora la natura a proporci un buon rimedio. “Tra i suoi tanti esperimenti la Nasa ne ha condotto uno per verificare le potenzialità anti-inquinamento delle piante”, spiega Elena Accati, ricercatrice dell’Università di Torino. “Per alcuni anni sono stati posti diversi tipi di vegetali in celle di plexiglas a perfetta tenuta stagna dove successivamente veniva introdotto il gas in esame. In base alla misurazione di sostanze inquinanti assorbite dalle foglie è stata stilata una classifica delle piante da appartamento più efficaci contro l’aria viziata”.
Secondo Bill Wolverton, coordinatore dell’esperimento della Nasa, la sansevieria è di gran lunga la più vorace nei confronti di molti dei gas che investano le nostre case, seguita dalla gerbera jamesonii, dalla dracaena marginata e dalla più comune edera. “L’effetto della sansevieria viene poi integrato dal rhododendron indicum, cioè l’azalea: un solo cespo di azalea è in grado di assorbire tutta la formaldeide presente giornalmente in una stanza di 30 metri quadri”.
In genere sono molto efficaci le piante verdi con grande superficie fogliare. Le piante tropicali, in particolare, sono in grado, meglio di altre, di trasformare gli inquinanti in sostanze nutritizie. Ma il merito non è tutto delle foglie: un ruolo importante è svolto dalle radici, dal terriccio del vaso e dai microrganismi che lo abitano. Inoltre la stessa pianta inserita in ambienti domestici “suda” per una termo regolamentazione spontanea e così facendo diventa anche un perfetto termoregolatore per gli ambienti chiusi, spesso troppo secchi.
DISINCROSTAZIONE FOTONICA
La cattedrale di Amiens, in Francia, è una delle più belle cattedrali in stile gotico. Costruita nel 1200 la sua facciata molto lavorata e quindi ricca di interstizi ha accumulato per secoli sporco d’ogni tipo.
Nel 1992, un’équipe di tecnici e restauratori l’ha ripulita tutta in poche settimane con un piccolo raggio laser e senza solventi o spazzole che potevano intaccare la roccia o rovinare le pitture.
Regolato per intensità e angolazione il laser ha sistematicamente eliminato la sporcizia riducendola in un innocuo strato di polvere.
L’acqua, sorella o nemica?
LA NEBBIADELNAUFRAGO
Chungungo è un piccolo villaggio di 350 abitanti nel nord del Cile, al centro del deserto di Atacama, una delle zone più aride del globo. Tra una pioggia e l’altra possono passare anche cinque anni. Per avere l’acqua, gli abitanti del villaggio devono pagare profumatamente un servizio di autocisterne. Per ironia della sorte, Chungungo è anche uno dei posti più umidi della Terra perché per quasi 300 giorni l’anno è immerso nella “camanchaca”, una densa nebbia che sale dall’oceano Pacifico.
Alcuni scienziati cileni, prendendo spunto da un sistema elaborato in Canada, hanno escogitato il modo di catturare la nebbia e condensarne l’umidità per produrre acqua potabile. Hanno montato 75 grandi reti di polietilene. Ciascuna misura 48 metri quadrati, che insieme fanno una superficie complessiva di poco inferiore a quella di un campo di calcio. Sfruttando le proprietà di questo materiale, sono riusciti a raccogliere e condensare le goccioline di umidità che compongono la nebbia. Ogni giorno l’apparato fornisce oltre 10 mila litri d’acqua.
Un sistema analogo era noto fin dal tardo Medioevo ai naufraghi che, sfruttando le nebbie del mattino, riuscivano a procurarsi una razione d’acqua anche in altro mare.
9 Giugno 1990. Al largo della costa texana, nei pressi di Galvestone, la petroliera norvegese Mega Borg solca indifferente le acque del golfo del Messico. A causa della scarsa manutenzione, a bordo si verificano una serie di esplosioni. Lo scafo si inclina pericolosamente e le stive vomitano in mare 100 mila tonnellate di petrolio. I soccorsi sono tempestivi, ma ben poco si può fare contro la marea nera e inizia l’estenuante opera di raccolta meccanica del greggio.
Un gruppo di ricercatori si fa avanti e suggerisce di cospargere il pelo dell’acqua con alcuni microrganismi selezionati in laboratorio e capaci di mangiare il petrolio.”Mangiare il petrolio?” “Sì, batteri. Grazie alle biotecnologie li abbiamo addestrati a disgregare il greggio e assorbirlo”, spiegano i ricercatori.
MICRORGANISMI MANGIA PETROLIO
Per migliorare la propria capacità di intervento in caso di inquinamento marino, la tecnologia ambientale sta imboccando due strade, differenti ma parallele: l’automazione del monitoraggio e l’impiego delle biotecnologie.
In natura già esistono degli organismi viventi microscopici che si sviluppano disgregando il petrolio e utilizzandolo come cibo. È un processo di mineralizzazione, cioè una trasformazione chimica che disgrega il greggio in biossido di carbonio, acqua e azoto. Si è allora pensato di identificare questi microrganismi, trovando il modo di allevarli in laboratorio e di stimolarne al massimo la voracità. Questa operazione ha coinvolto chimici (che conoscono le trasformazioni molecolari degli idrocarburi), biologi (che studiano i microrganismi presenti in mare) e genetisti (che sanno come modificare il patrimonio genetico di alcuni batteri).
Proprio questi ultimi hanno isolato, tra le diverse famiglie di questi batteri, quelli più voraci e più rapidi nel riprodursi. Quindi sono stati progettati degli enzimi biocatalizzatori del petrolio, sostanze, cioè, con un compito specifico di disgregare gli idrocarburi in composti più semplici, imitando lo stesso processo che già avviene in natura. Il passo successivo è stato quello di inserire questi enzimi nel DNA dei batteri scelti precedentemente.
Con un procedimento simile, e grazie ad un accordo siglato tra Enea, Cnr e Infremer (l’Istituto francese per lo sfruttamento delle risorse del mare), nei prossimi quattro anni verrà sviluppata una nuova tecnica per le analisi delle acque inquinate.
Si è notato che in ecosistema marino, ogni componente (Alghe, pesci, plancton) reagisce a modo suo all’in-quinamento chimico. Catalogando e studiano tutti i tipi di reazione (l’ausilio dei computer semplificherà il lavoro) con alcune analisi molto rapide sarà possibile affermare che quella zona è inquinata da una ben precisa sostanza tossica.
NUOVE SENTINELLE
L’arma segreta (un termine inglese che potremmo tradurre con “bioindicatore” o con “segnalatore biologico”): vere e proprie sentinella naturali che segnalano le anomalie dovute all’inquinamento dell’acqua.
Quando un composto tossico entra in un ecosistema provoca una serie di alterazioni. Le alghe reagiscono in un certo modo (cambiando colore, per esempio), alcuni pesci in un altro, il plancton in una maniera ancora differente e così via. Infatti, la contaminazione chimica esterna agisce sulle cellule. Misurando e studiando le risposte che un organismo, una popolazione o una comunità possono generare nei confronti di un elemento chimico, si riesce a valutare il danno subito dall’intero ambiente.
In questo particolare settore di intervento si inserisce anche il lavoro della Eidos, un’azienda di Lodi specializzata nella simulazione al computer, che ha sviluppato per conto dell’Agip un programma per studiare il mare in caso di disastro ecologico. Il computer ha in memoria la mappa di numerosi tratti di mare, conosce la situazione dei fondali, delle correnti, dei venti, e sa quali tipi di pesci, uccelli e molluschi vivono nella zona. Ipotizzando che venga versato in mare una certa quantità di petrolio o di alte sostanze nocive, sul video appaiono le soluzioni più indicate (con la sequenza precisa del tipo di operazione e l’indicazione dei materiali da impiegare) per procedere all’opera di bonifica.
Per quanto riguarda il monitoraggio, tenere sotto controllo vasti tratti di mare non è difficile. Anche se impiegare degli uomini per questo lavoro costa. Meglio affidarsi a piccole boe-robot, sistemate nei punti strategici della costa o del mare aperto. Una boa del genere costa dai cinque ai trenta milioni, quanto pochi giorni di rilevazioni condotte da una nave oceanografica.
Le più piccole (come la goffa boa gialla di cui parlavamo all’inizio) misurano appena qualche metro di diametro, funzionano a batteria e, al loro interno, contengono una cartuccia densa di sensori che periodicamente viene riportata in laboratorio e sostituita con una cartuccia vuota. Generalmente vengono impiegate sottocosta.
Le boe oceanografiche ancorate in mare aperto sono alte circa 50 metri e vengono alimentate da 8 pannelli solari. Tutti gli strumenti, che possono controllare anche la variazioni atmosferiche, sono sistemati in una cabina, collegata via radio con i laboratori di terra.
IL CALORE RECUPERATO NELLO SCOLO
Dove finisce la maggior parte dell’acqua calda di casa? Dalla doccia, dal lavabo scola lungo le tubature della acque bianche e raggiunge le fognature. Una buona quantità dell’energia così sprecata può essere recuperata grazie ad una particolare “doccia salva-energia”, che incorpora uno scambiatore di calore acqua-acqua.
L’acqua di scarico fluisce attraverso un canale che si avvita su se stesso per circa tre metri e mezzo. All’interno del canale corrono alcuni tubi di rame che portano acqua fredda. Man mano che i due liquidi scorrono uno a contatto dell’altro, l’acqua fredda pulita assorbe il calore di quella calda sporca. L’acqua pulita intiepidita viene condotta al boiler che avrà bisogno di meno energia per scaldarla ulteriormente.
Tutto il sistema è controllato da un microprocessore che limita o incrementa l’attività del boiler in base al calore recuperato. In base al costo dell’energia elettrica domestica, negli Stati Uniti dieci minuti di doccia costano mediamente 32 centesimi di dollaro, mentre con questo sistema si potrebbe scendere anche a 8/10 centesimi. Ipotizzando che ciascuno faccia una doccia al giorno, una famiglia di 5 persone risparmierebbe più di 33 dollari al mese (50 mila lire circa).
La flora e la fauna
POPCORN DA IMBALLAGGIO
È pratico, efficace, economico, ma soprattutto perfettamente naturale e riciclabile: anziché ricorrere al poco ecologico polistirolo adesso è possibile imballare gli oggetti delicati con il pop-corn. Non proprio quello che siamo abituati a sgranocchiare al cinema, ma un pop-corn ricavato da una varietà di mais appositamente selezionato, più gommosa ed elastica,
Il pop-corn viene prodotto con speciali macchine ad aria o di altre sostanze chimiche, ma soprattutto è perfettament4e e facilmente riciclabile: mentre il polistirolo impiega decine di anni prima di essere assorbito dall’ambiente, il pop-corn da imballaggio può essere smaltito facilmente con i rifiuti domestici, riciclato come mangime animale o mescolato al concime.
L’idea è nata negli Stati Uniti e in Italia è stata rilanciata dalla Bio Impac, una piccola azienda di Cervia (in provincia di Ravenna) che da quasi un paio d’anni produce e vende il pop-corn da imballo.
Per contribuire a salvare boschi e foreste già da molti anni è possibile riciclare la carta con procedimenti che si sono via via affinati fino a eliminare certi solventi pericolosi (il cloro che si usava per sbiancare la cellulosa di seconda mano) o a permettere più cicli di lavorazione: la carta riciclata si può a sua volta riciclare.
Nessuno aveva ancora pensato di riciclare direttamente il legno, utilizzando gli scarti del bosco (quei rametti che finivano sempre nella legna da ardere) ma anche pomelli, maniglie, ante di mobili che non si possono riparare e che non sono abbastanza antichi da essere destinati al restauro dell’antiquariato.
Ci ha pensato la Paxil, di Osoppo (Udine), che ha sviluppato una tecnica innovativa per produrre pannelli di fibra di legno: non i soliti truciolati di segatura pressata, ma di veri e propri pannelli di legno pieno, molto simili, per aspetto, struttura e caratteristiche fisiche, al legno massiccio. Con un processo interamente automatizzato gli scarti del bosco (ramaglia, tronchi di poco pregio, che generalmente abbondano nei boschi dopo il taglio degli alberi migliori) vengono sminuzzati in particelle di pochi millimetri, che vengono accuratamente ripulite da residui di terriccio prima di essere ridotte in fibra di legno e, con il passaggio attraverso uno sfibratore, in una sorta di morbida lanugine. Questo materiale viene fatto essiccare prima di essere impregnato di collante. Una macchina, infine, prepara dei blocchi simili a materassi che saranno pressati a caldo e levigati. Il risultato è l’Mdf, un pannello in fibra di legno che un profano stenterebbe a distinguere da un analogo pannello di legno “vero”.
Attualmente l’Mdf viene usato per la fabbricazione dei mobili, ma in futuro potrà sostituire il legno in quasi tutti i suoi impieghi tradizionali. Anche il suo costo conviene, specie nei confronti del legno pregiato o di quello di provenienza tropicale. Grazie all’Mdf i tronchi di faggio e di abete possono essere meno richiesti, il che vuol dire risparmiare interi boschi.
Ma l’Mdf è doppiamente ecologico. “Il legno di scarto che viene usato come materia prima per i nostri pannelli in fibra di legno ci arriva in gran parte dai Paesi dell’Est”, spiegano i tecnici della Paxil. “L’Italia possiede una quantità di legname di cattiva qualità: i boschi cedui che ricoprono buona parte degli Appennini e delle Prealpi. Per secoli sono stati sfruttati per produrre legna da ardere e carbone, ma da anni sono in condizioni di degrado preoccupante”. Sfrondando le piante sane, abbattendo quelle malate e pulendo il sottobosco si otterrebbe un duplice risultato: ridare vita ad un bosco morente e approvvigionarsi materiale per l’Mdf. In Irpinia un’operazione di questo genere ha dato lavoro a 350 persone e rigenerato intere colline.
Dai boschi della Campania ai mari della Florida. In quelle acque vivono i manati, grosso mammifero erbivoro acquatico, detto anche lamantino, che appartiene all’ordine dei sirenidi e che vagamente ricorda un tricheco senza zanne. È uno dei tanti animali la cui sopravvivenza è minacciata dall’uomo, ma è anche protagonista, in questi mesi, di un nuovo esperimento per la tutela delle specie in vi di estinzione. I ricercatori hanno imbrigliato alcuni manati con un collare a cui è agganciata una piccola trasmittente. Il segnale radio viene ricevuto dai satellite Noaa che lo ritrasmette a terra, al centro della National Oceanic and Atmospheric Administration (una sorta di ministero americano dell’aria e dell’acqua). I ricercatori possono cos’ sapere giorno per giorno dove i manati sono andati a cercarsi il cibo e istituire delle aree protette (o nel frattempo avvertire i pescherecci di stare alla larga da quel tratto di mare).
Se l’esperimento andrà a buon fine si potrà applicare questo sistema ad altre specie acquatiche in pericolo. Qualcosa di analogo si sta facendo in Africa equatoriale per seguire i movimenti dei rinoceronti: la trasmittente ha anche un sensore che segnala quando il cuore dell’animale cessa di battere. Subito una pattuglia della Guardia forestale interviene per verificare che sia stata una morte naturale o non una banda di bracconieri che, rimasti accanto all’animale per segar via il prezioso corno verrebbero facilmente catturati.
SCOGLIERA ISTANTANEA
La roccia delle scogliere marine ha una superficie rugosa, piena di cavità che attraggono i coralli, le alghe e una nutrita schiera di specie marine. È indispensabile per la sopravivenza degli ecosistemi marini e per la lotta alla desertificazione dei fondali.
Dove la scogliera naturale è andata distrutta, oggi è possibile rimpiazzarla con la Reef Ball, una scogliera artificiale alta circa 120 cm, progettata negli Usa. Viene costruita iniettando cemento tra uno stampo di fibra di vetro e una vescica gonfiabile; alcune palle removibili e di forma asimmetrica poste tra i due starti creano fori adatti per pesci e coralli. Trascinata sull’acqua fino alla sua destinazione, lentamente affonda man mano che la vescica si sgonfi.
CHIP PER LE PECORE
Oggi è anche possibile costruire chip (il cervello vero e proprio di ogni computer) talmente piccoli da poter essere inseriti in una carta di credito. Questi microchip possono memorizzare una serie qualsiasi di dati e dialogare, funzionando anche da ricetrasmittente, con un banca dati centrale. Data la vastità sconfinata dei pascoli australiani, alcuni pastori si sono attrezzati per tenere sotto controllo tutte le loro pecore. Le hanno dotate di un collare contenente un microchip appositamente studiato che, appoggiandosi ad un satellite per telecomunicazioni, non solo permette al pastore di localizzare ogni singolo animale in ogni istante, ma tiene sotto controllo il peso, l’alimentazione e lo stato di salute di tutti i capi di bestiame.
BANCA DATI PER GLI ALBERI DA FRUTTO
Quanti italiani con meno di 30 anni conoscono il gusto delle mele limoncelle, delle pere volpine o delle sorbe? Le esigenze di una produzione intensiva e di massa vanno a scapito della varietà del prodotto e quindi limitano la diversità biologica della natura. Non solo si estinguono gli animali, anche piante non più coltivate rischiano di scomparire definitivamente.
All’Università di Bologna alcuni biologi si sono dedicati all’archeologia della frutta e stanno girando in lungo e in largo tutte le campagna della penisola raccogliendo i semi degli alberi dimenticati. Grazie ad una sofisticata tecnica di analisi genetica e all’uso del computer, questi semi saranno protetti in una speciale banca biologica e le loro caratteristiche conservate in una memoria elettronica.
ACETO PER LA TERRA
Un altro esempio ci viene dall’Oras, una particolare qualità di aceto, non serve solo per aromatizzare un’insalata, ma anche per bonificare i terreni inquinati. Tom Brouns e altri ricercatori dei Battelle Pacific Northwestern Laboratories hanno iniziato a verificare su larga scala la propria intuizione, iniettando parecchie centinaia di litri di questo aceto in un terreno appena fuori Hanford, dove fino a poco tempo prima era attivo un impianto di lavorazione del plutonio. Innaffiati dall’aceto si pensa che i batteri presenti nel terreno incominceranno a far degradare il tetracloruro di carbonio e l’acido nitrico, due composti utilizzati nella lavorazione del plutonio e altamente velenosi per qualsiasi tipo di coltivazione.
Stando ai test già effettuati in laboratorio dovrebbero essere necessari circa 10 mesi per ripulire a fondo la zona di prova che misura poco più di 12 metri di diametro. Se la prova avrà successo le iniezioni di aceto saranno utilizzate per disinquinare altre aree della zona di Hanford.
Abbiamo fin qui preso in esame un folto gruppo di esempi dove la tecnologia anziché ostile diventa amica dell’ambiente. Purtroppo, nella maggioranza dei casi, si tratta di interventi di riparazione, che mettono una pezza dove uomini con pochi scrupoli o sistemi di vita per niente sani hanno inciso in modo negativo sulla natura. Molto spesso, inoltre, si tratta di tecniche ”riciclate”, idee nate in tutt’altro settore e solo in seguito sfruttate per
la salvaguardia ambientale.
UNA COPERTA ELETTRICA PER I GERMOGLI
Il Professional Propagation Mat è un tappetino in gomma che, riscaldando il terreno coltivato ad una temperatura variabile tra i 4 e i 38 gradi centigradi, aiuta i semi a germogliare anche inn regioni dal clima rigido.
La coperta e il termostato di regolazione costano,compreso un cavo di alimentazione di due metri, 125 dollari e sono già stati sperimentati con successo da molti agricoltori degli stati più settentrionali degli Stati Uniti e del Canada.
Meglio che niente, siamo d’accordo, ma sta diventando quanto mai necessario dedicare energie e risorse per l’ambiente in maniera più diretta ed esclusiva. In Germania è nata una nuova disciplina di ricerca, l’”ecologia dei materiali”. È un modo totalmente innovativo di considerare il processo industriale che porta alla realizzazione di un qualsiasi oggetto dove per giudicarne la convenienza, accanto alla tradizionale analisi dei costi della materia prima o della manodopera, vengono considerati anche l’impatto ambientale dell’intera lavorazione, gli imballi necessari per il trasporto, le possibilità di smaltimento o riciclo quando l’oggetto in questione viene buttato via.
Ad esempio, prendiamo in esame due confezioni di succo d’arancia da un litro, una prodotta in Florida e una in Spagna. Per arrivare al litro di succo della Florida sono stati necessari mille litri d’acqua le coltivazioni di quella zona sono innaffiate artificialmente), una nave ha dovuto attraversare l’oceano per portarlo in Europa ed è stata consumata un bel po’ di energia per sintetizzare la plastica e l’alluminio per il contenitore in tetrapak. Non solo: non si può smaltire il tetrapak in un inceneritore semplice perché produrrebbe diossina, occorre un inceneritore speciale con filtri per l’abbattimento dei veleni molto costosi. Gli aranceti spagnoli hanno avuto bisogno di meno irrigazione artificiale ed il succo ricavato è stato imbottigliato in contenitori di vetro che hanno viaggiato in treno. Ammesso che i due prodotti abbiano lo stesso prezzo al supermercato e la stessa qualità, qual è il loro valore in termini di ambiente?
Toccherà all’ecologia dei materiali valutarlo, con una nuova unità di misura: il Mips. La sigla significa “intensità di materiale per l’unità di servizio”, ma è una definizione da addetti ai lavori. In parole più semplici si tratta di stabilire quanto ambiente (sotto forma di materie prime, energia elettrica, petrolio per il trasporto, cartone o plastica per l’imballaggio, camion e cassonetti della spazzatura…) viene consumato per produrre un oggetto in rapporto alla durata più a lungo di un succo di frutta).
Se sull’etichetta di ogni prodotto ci fosse anche lo spazio per il valore in Mips starà ad ogni consumatore, cioè a noi tutti, diventare responsabili della natura e decidere quanto ambiente consumare ogni volta che facciamo la spesa.
“LA STORIA VERDE DEL MONDO”
Per capire l’evoluzione delle problematiche ambientali è necessaria, accanto alle nozioni tecniche specifiche, un’informazione di carattere storico. Clive Ponting ha cercato di colmare questa lacuna con il libro “La storia verde del mondo” (ed. Sei, pp. 475)
Ponting è ricercatore di storia all’University College di Swansea, in Gran Bretagna, e dopo quasi vent’anni di ricerche è riuscito a inquadrare la storia dell’umanità in una prospettiva assolutamente originale. La lotta all’inquinamento ha precedenti insospettati; nei secoli passati si sono fatti errori di valutazione che ora, per eccessivo fanatismo rischiammo di ripetere.