Ogni tanto il tormentone rispunta: salviamo i dialetti. Adesso c’è chi propone di renderli obbligatori ma nell’idea, più che il tentativo di salvare una ricchezza, si coglie una vena di divisione, un sospetto di disunità che alimenta una vecchia diatriba politica. Eppure il dialetto è la nostra lingua madre, ci fa esprimere sfumature che l’italiano un po’ sciatto e ormai intriso del romanesco televisivo, non concede.
È la lingua dei proverbi, dei modi di dire diversamente intraducibili, degli sfottò e delle parole d’amore. Un patrimonio da conservare, dunque. Ma è anche un’espressione spontanea che non può essere imposta per legge.
La carica dei seimila
In Italia non c’è regione, città o paese che non abbia il suo dialetto. Gli esperti di statistica ne hanno contati seimila, ma sono molti di più. Lo sa bene uno come me che è nato a Chiomonte, mille abitanti in Valle di Susa, in Piemonte, dove ogni borgata ha inflessioni e accenti diversi. Lisa, la mia nonna materna, contadina arguta però indifesa davanti alle nuove tecnologie, prima dell’iniezione quotidiana copriva il televisore con un telo, spiegando: “A voiu pa’ fame veire” e cioè “Non voglio farmi vedere”. L’infermiera, che veniva da un paese vicino, stentava a capirla.
Chiomonte ha una frazione, Ramat, una manciata di case aggrappate alla montagna e strette attorno al campanile che di notte è illuminato e dal basso sembra appeso alle nuvole. Gli abitanti sono meno di 200, orgogliosi delle loro viuzze di pietra sempre pulite, degli orti colorati come certi quadri naif, delle vigne strappate alla roccia, delle patate coltivate con passione e fra le più gustose del mondo.
Anche qui si parla in dialetto, ma la pronuncia è molto diversa da quella del capoluogo: bastano pochi chilometri di distanza per ascoltare due linguaggi differenti. E lo stesso accade se vai a Gravere o ad Exilles, tutti paesi appiccicati, ognuno con il proprio vernacolo.
Persino nelle isole della laguna di Venezia si parlano dialetti diversi: quello di Burano non è uguale a quello di Pellestrina. Cantati da Porta e da Belli, da Trilussa e Pasolini, da Baffo e Marin, o messi in prosa da Camilleri, i dialetti sono in realtà idiomi locali, “varietà linguistiche”, secondo gli studiosi. In via di estinzione? Il regista Maurizio Scaparro, che nei suoi lavori ha spesso esaltato le due “lingue” ufficiali del teatro italiano, non ha dubbi: “Il dialetto resta una forza integra, il vero malato è l’italiano. Nel senso che sono sempre di più quelli che lo parlano male e lo stanno sostituendo con un semi-inglese da ragionieri”.
Dalla Toscana alla tv
Ma com’è nato l’italiano che parliamo oggi? La nostra non è una lingua imposta per legge, come spesso è accaduto nelle altre nazioni europee, ma una libera scelta degli uomini di cultura a partire dal tardo Quattrocento. Era diventato sempre più difficile esprimersi in latino, per cui i dotti si accordarono sulla variante di volgare illustrato dalla triade sublime: Dante, Petrarca e Boccaccio.
Così il dialetto toscano, in particolare quello fiorentino, divenne la lingua franca per gli scambi, la letteratura e la cultura in generale. Lingua “democratica”, ma per lungo tempo riservata a chi sapeva di lettere. Verso la metà dell’Ottocento, la maggioranza degli immigrati che popolavano l’Argentina erano italiani: veneti afflitti dalla pellagra, calabresi e siciliani affamati e tanti altri che conoscevano soltanto il loro dialetto: per capire gli altri italiani dovettero imparare lo spagnolo. Ci sono voluti la scuola d’obbligo e più ancora la radio e poi la televisione perché quel vernacolo fiorentino diventasse lingua nazionale.
Adesso c’è chi vorrebbe tornare indietro: propone lo studio obbligatorio delle parlate originali. Commenta il premio Nobel Dario Fo, il grande esperto di “grammelot”, che è la reinvenzione delle lingue attraverso l’onomatopea: “Sarebbe bello poter recuperare tutto quel patrimonio culturale, ma è impossibile. Non conosco neanche uno studioso che sia in grado di insegnare un dialetto in modo serio e completo o di redigere un manuale scientifico e lessicale di questo tipo”. E conclude: “In Lombardia potete trovare più di 50 vocabolari sui dialetti: non ce ne sono due che collimano tra loro”.
Intanto – sotto la spinta dei viaggi, di Internet e del cinema – l’uso del dialetto è diminuito. In pochi anni – rileva l’Istat – si è dimezzato, passando dal 32% del 1988 al solo 16% del 2006. È invece aumentato il “misto” di italiano e dialetto e dal 2000 al 2006 è molto cresciuto l’uso esclusivo dell’italiano, sia in famiglia (45%) che con gli amici (48%), specie con gli estranei (72%).
Ma di quale italiano si tratta? Raffaele Simone, professore universitario e uno dei maggiori linguisti europei, non ha dubbi: “L’italiano è parlato di più, ma meno bene di un tempo. Per intendersi: un professionista o uno studente di 40 anni fa si esprimeva in modo molto più corretto. Bisognerebbe perfezionare l’apprendimento dell’italiano, scritto e parlato, e conservare il dialetto come forma di bene culturale”.
Prosegue il professor Simone: “Tra l’altro, un dialettofono è penalizzato, avrà bisogno di un terzo passaggio mentale prima di arrivare ad una lingua straniera. E in un’epoca globalizzata questo certo non aiuta. Nella ricerca “Ocse Pisa” del 2006 gli studenti italiani risultavano drammaticamente sotto la media europea in un’abilità cruciale come la comprensione della lettura. Anche questo dato mi fa dire – conclude l’esperto – che oggi la battaglia in favore dell’italiano pare più urgente di quella sui dialetti”.
©Mondo Erre - Cenzino Mussa