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LA MALEDUCAZIONE SI FA STRADA

Augusto e Walter, ragazzi di Genova vestiti in abiti del Settecento, hanno puntato zecchini e vinto barattoli di pesto. Il gioco si chiama “Biribissi” ed è vecchio di 300 anni. Il più antico di quelli riproposti a Verona, sul finire dell’estate, per il Festival internazionale dei giochi di strada. Lo praticavano anche a Venezia e a Parigi, quando in palio non c’era il condimento a base di basilico ma monete sonanti. Può essere pericoloso per la borsa, perché il banco vince quasi sempre, come la roulette. Manca solo la pallina che gira. Si punta sulle caselle di un tavoliere con figure di maschere, animali e nobiluomini e si vince tutto se il numero estratto da un sacchetto corrisponde a quello della casella. Altrimenti si perde.
Una volta erano tanti i giochi di strada. Come la veloce Lippa, o Pindolo, una sorta di baseball con un battitore armato di bastone che doveva spedire lontano un bastoncino più piccolo dalle estremità appuntite. O come la temuta battaglia di fruste, dove vinceva chi riusciva a far schioccare più volte la propria senza interruzioni.
Strade e piazze, logge e giardini di Verona hanno ospitato 150 mila giocatori di biglie e birilli, trottole e fischietti: “Più divertenti del computer”, ha sentenziato Alberto Eccli, 13 anni, veronese, specialista di Ciclotappo, che è la corsa ciclistica dei tappi a corona delle bibite gassate con le figurine dei corridori dentro, sparati a colpi di dita sulle piste disegnate in terra con il gessetto. “Meglio anche del game-boy”, ha aggiunto Marco Roghi, quattordicenne milanese, campione di Pirlì, che è un antenato del flipper, dove una trottola deve abbattere i birilli dentro un castello. E non sono mancate le sfide più audaci, come il tiro alla fune, il lancio dei ferri di cavallo, il gioco delle bocce con le pietre o pesanti palle di ferro chiodate.
Oggi sarebbe impossibile divertirsi così nelle strade delle grandi città. Sui marciapiedi c’è qualunque cosa. Ci sono violenza, povertà e abbandono. Soprattutto fretta e indifferenza. Il traffico è spesso convulso e pochi adulti rispettano le regole. Anche i ragazzi - senza fare di un’erba un fascio - non le rispettano. E forse si divertono meno di quanto si divertissero i loro nonni, che pure erano molto più poveri. Però sfrecciano in motoretta come sulla pista di sci, incuranti di sé e degli altri.
La strada fa più vittime che un’epidemia: 3.242 ogni giorno nel mondo, che fa un milione e 200 mila l’anno. Poi c’è il conto dei feriti e di quelli che restano disabili: 50 milioni l’anno. Per i giovani la velocità è la seconda causa di morte. Si uccidono e qualche volta uccidono.


Manca il rispetto

Eppure, presi uno per volta, i ragazzi del 2007 non sono molto diversi da come erano i loro nonni: soltanto più informati e meglio nutriti, più svegli ma con meno capacità di superare gli inevitabili ostacoli della vita. È il branco che li trasforma.
Quel ragazzo che un attimo fa, solo all’angolo della strada, rispondeva sottovoce quasi la sua fosse una telefonata clandestina, perché adesso che ha raggiunto gli amici, ostenta il cellulare e urla come allo stadio? Perché la mite studentessa appena sale sul bus con le amiche esibisce un linguaggio che farebbe arrossire un facchino? Sul bus c’è anche una vecchietta curva che stenta a sorreggere i sacchi della spesa. Vuoi vedere che la ragazza le cede il posto e magari interrompe l’intercalare da fronte del porto? Macché!
D’accordo: la lingua è una cosa viva, che evolve di pari passo con chi la parla e con la società in cui vive. Sciocco e birichino oggi hanno sinonimi molto pesanti, ma il linguaggio dei ragazzi fuori casa a volte è insopportabile. Il turpiloquio non è questione di moralità, ma di gusto. Chi usa una parola turpe non fa peccato. A meno che non diventi bestemmia, allora è anche reato. Molti ragazzi usano le parole volgari per sentirsi più adulti e perché così parla il branco. Così si rivelano più piccoli, tanto da essere incapaci di usare il proprio cervello. Manca il rispetto per il prossimo.
E manca il rispetto per le cose pubbliche, quelle cioè che appartengono a tutta la comunità. I palazzi e i monumenti insudiciati, per esempio. C’è un blog su Internet che riguarda i writer, gli imbratta muri. Alcuni spiritosi, come questo: “Anche Piero Manzoni (quello della “cacca d’artista”) ha esternato la sua creatività e l’ha messa in scatola. Queste esternazioni le facciano sui muri di casa loro”. Altro pensierino di un navigatore: “Ogni gesto che cambia aspetto a ciò che è stato costruito con i soldi pubblici è vandalismo. Bisogno di esprimere emozioni? Esprimetele su un foglio di carta, o sulle pareti di casa vostra”. Un altro si domanda: “Di chi è la colpa se un ragazzo imbratta un monumento? Dei genitori che non l’hanno sculacciato o della scuola che non insegna il valore dell’arte e il rispetto delle cose pubbliche?”.
La città è di tutti, le strade appartengono a ognuno di noi. E così le scuole, i bus, i treni, i monumenti e i giardini. Dovremmo difenderli dai vandali, come difenderemmo casa nostra, e non invece contribuire alla loro distruzione. Talvolta basta un gesto a fermare il branco: due passi per depositare la lattina vuota o un pezzo di carta nel cestino dei rifiuti. Basta stare zitti dove c’è scritto “Silenzio”, rispettare i cartelli stradali, timbrare il biglietto dell’autobus. E ricordarsi che la libertà di ognuno finisce dove comincia quella altrui.
Senza quasi che ce ne accorgessimo, con un processo di degrado al quale ci siamo lentamente abituati, la qualità della nostra vita s’è sfilacciata. Violazioni grandi e piccole sono diventate, se non la regola, quanto meno largamente tollerate. Una delle cause del marasma italiano è proprio la mancanza dilagante di regole precise e di una idea del bene comune.
La legalità, che è alla base di ogni pacifica convivenza, significa anche solidarietà, perché aiuta i più deboli. E allora, nonostante tutto, la speranza ancora una volta è riposta nella generosità dei giovani. L’ha detto anche Papa Ratzinger: “Ragazzi, cambiate il mondo”.

CENZINO MUSSA
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