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IL DOMANI INCOMINCIA A 13 ANNI

Che cosa sia un test lo sanno tutti: una prova che ha lo scopo di fornire dati utili alla conoscenza di un problema, alla verifica di una ipotesi, alla validità di un prodotto. La parola deriva dal latino “testu”, che era il vaso di coccio dove gli alchimisti saggiavano l’oro. Viviamo in mezzo a questi esperimenti: li fanno prima di lanciare un cibo o un oggetto sul mercato, per esaminare le attitudini di una persona, per accertare una situazione clinica, per sperimentare qualsiasi cosa, dal dentifricio alla bomba nucleare.
Diciamo la verità, i test ci sono anche venuti a noia. Alcuni sembrano indispensabili, altri inutili. Sono attendibili? Il professor David Lubinski, della Vanderbilt University, almeno su uno non ha dubbi: il test chiamato “Sat”, utilizzato dai college americani per selezionare gli allievi, funziona bene. Anzi, benissimo sui ragazzi attorno ai 13 anni, l’età cruciale per decidere il futuro.
Il test, secondo il suo inventore, rivela non solo se l’allievo è dotato, ma anche in quale materia è destinato ad eccellere. Insomma, risponde alla solita, barbosa, domanda: “Che cosa farai da grande?”.
La sigla “Sat” sta per Scholastic aptitude test e valuta l’abilità di ragionamento verbale e matematico attraverso tre sezioni di prove. Verifica della capacità di comprendere un testo e di ragionamento analitico, frasi da completare, controllo delle competenze grammaticali, uso della lingua, selezione delle parole e componimento sono oggetto delle prime due sezioni. Della terza fanno parte operazioni, algebra, geometria e statistica.
Ognuna prevede un punteggio da 200 a 800. Per rispondere ad alcuni quesiti bisogna scegliere la risposta giusta tra le diverse proposte. Esiste anche un test per materia, in 22 versioni. Viene usato per valutare la preparazione del candidato in un’area specifica: storia, letteratura, biologia, fisica e così via. Il “Sat” è richiesto dai college e dalle università americane e canadesi.

Sono utili o inutili?
Le certezze del professor Lubinski derivano da una ricerca svolta su più di 2 mila adulti che, 25 anni dopo il loro test, si sono sentiti domandare che cosa avevano fatto della loro vita professionale. Si è scoperto che chi a 13 anni aveva ottenuto punteggi alti in matematica ha poi fatto carriera in campo tecnologico o ingegneristico e chi aveva brillato nella parte linguistica è diventato uno scrittore, un giornalista o uno storico. E i 18 che sono arrivati ad insegnare matematica e scienze nelle più prestigiose università statunitensi avevano tutti ottenuto punteggi altissimi nel test di matematica.
A 13 anni, dunque, il futuro è già segnato? Si è subito aperto un dibattito. Qualcuno ha osservato che “le passioni non hanno età” per cui si può scoprire il piacere di una professione anche molto tempo dopo l’adolescenza. Altri hanno ricordato che il più grande scienziato dei nostri tempi, Albert Einstein, quand’era ragazzo e studiava a Monaco di Baviera, mal sopportava i numeri ed era piuttosto scarso nelle materie scientifiche.
“Frenerei sul risultato di queste ricerche”, dice la psicoterapeuta Enrica Beringheli che da quasi 30 anni si occupa di ragazzi e famiglie nei consultori milanesi. Spiega: “Se si dice a un teenager che è brillante in qualcosa, se si indirizza tutta la sua carriera scolastica in quella direzione e se si considera che l’America tende a valorizzare i propri talenti, anziché metterli in fuga, è probabile che le promesse giovanili vengano mantenute. Ma questo non significa che il test sia così profetico e che in Italia funzionerebbe. Manca un tentativo di valutare le risorse emotive, fondamentali soprattutto da noi dove il talento e l’impegno non sempre bastano per emergere. E poi il ragazzo dotato può subire molte, troppe, pressioni da parte di genitori e insegnanti”.
Di altro parere è Cristina Castelli, che dirige il Centro di psicologia orientativa dell’Università Cattolica di Milano, una che i test li fa. Dice: “Noi ci occupiamo di orientamento alle medie e alle superiori, servendoci anche di prove simili al “Sat”. Sono strumenti utili, ma tutto dipende dal perché si utilizzano. Se servono per sbarrare l’accesso agli studi, sono da bocciare; se invece aiutano un ragazzo a capire quali sono le sue reali potenzialità, sono da promuovere”.
Prosegue la dott. Castelli: “Per esempio: studenti con insegnanti di manica stretta o che vivono in ambienti culturalmente poco motivanti, grazie ai test possono capire che non sono negati per la scuola come pensavano. Certo, il test non basta. Ci vuole un colloquio per approfondire il tema dei talenti emersi e per incoraggiare i ragazzi a trovare conferme anche in campi non prettamente scolastici, per esempio nello sport o nell’arte. Quanto ai genitori, non credo che diventino invadenti dopo aver letto i risultati di un test: se sono invadenti è perché lo erano già prima. Mi riferisco a quelli che hanno deciso di far realizzare ai figli ciò che loro non hanno saputo o potuto fare. Così si creano aspettative o attese narcisistiche”.
Aggiunge Gennaro Accursio, docente di psicologia della personalità all’Università La Sapienza di Roma: “I test vanno aiutati dalla conoscenza del cammino formativo del ragazzo e da approfonditi colloqui. Non conta solo quello che si sa, ma come si è. Bisogna fare domande aperte che prevedono risposte motivate. Se domandiamo a un giovane “Ti piace la storia?” la risposta è sì o no. Ma se ci risponderà sì, potremo domandargli “perché?”. E allora scopriremo che uno è incuriosito dalla vita avventurosa dei personaggi famosi, l’altro vuole conoscere le proprie radici e così via. In questo modo sapremo sempre di più di quel ragazzo. E lui di se stesso”.
Un percorso così nelle scuole è impossibile? “Forse - risponde Accursio - , ma si potrebbero fare più incontri insegnanti-allievi; ideare un progetto e farlo realizzare o 4 o 5 studenti. Sa quanti elementi si avrebbero allora per aiutare un ragazzo a scegliere tra liceo o istituto tecnico?”. Forse eviteremo anche le delusioni dell’esercito di aspiranti “veline” e calciatori quando s’accorgono che la vita, quella reale, non assomiglia a una scatola di cioccolatini.

FRANCO PARACHINI
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©AGOSTINO LONGO
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