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COLORIAMO IL MONDO

Il braccialetto di plastica inventato da Lance Armstrong è finito al polso di migliaia di ragazzi. Uno slogan per ogni colore: contro la fame, la guerra, l’intolleranza e le malattie. Ma un rapporto accusa: è fatto in Cina sfruttando gli operai.

L’ultima mania è un braccialetto di plastica colorato. Va bene per tutto: per dire stop alle malattie o alla fame nel mondo, per invitare alla tolleranza o alla difesa degli animali. Ogni colore corrisponde ad uno slogan secco, come Make poverty history, “manda la povertà nella storia”, o Hope faith love, “speranza fede amore”.
Si porta attorno al polso, o anche alla caviglia. Non importa se indossi una maglietta sbrecciata o l’abito elegante. La cosa più straordinaria è che questa striscia di silicone sembra aver sedotto tanto i “no global”, quanto i soldati che combattono in Iraq. La esibiscono il principe William e gli immigrati neri, i divi di Hollywood e i senza patria, i calciatori e i cantanti famosi come Bono e Shakira e anonimi studenti.

“Messaggi” a ruba
La moda è nata negli Stati Uniti, come simbolo dell’ottimismo e della tenacia di Lance Armstrong, il grande ciclista che ha sconfitto il cancro e poi ha dominato per tanti anni il Tour de France. Quando nel 1999, il campione guarito torna a vincere, compare sul suo polso il braccialetto giallo con la scritta Livestrong, (vivere fortemente) che è anche il nome della sua Fondazione.
È solo l’inizio: le striscette variopinte piacciono a Sharon Stone, Nicole Kidman, Bruce Willis, Mat Damon, Robin Williams e a tanti altri attori e politici, compreso Kerry, l’avversario di Bush, che le mostra durante le ultime elezioni presidenziali. Poi i braccialetti passano ai taxisti newyorkesi e dilagano fra i ragazzi.
Ma è l’Inghilterra, dove il nastrino è visibile anche ai polsi di molti poliziotti, che trasforma quel segnale contro il cancro in un simbolo: quasi un distintivo dell’Occidente che lotta contro tutti i cancri. Il premier Tony Blair sfoggiava il suo braccialetto molto prima dell’attacco terrorista del 7 luglio a Londra.
Ora quel simbolo sta invadendo l’Europa, senza l’aiuto di spot pubblicitari, soltanto attraverso Internet e il passa parola. In una settimana Parigi ha esaurito le scorte dell’intrecciato bianco e nero che invita: Make yourself heard, “Fai che ti sentano”, a Madrid non si trova più quello viola con la scritta Fuerza y Esperanza.
La radio inglese della Bbc ha lanciato l’azzurro contro la violenza sui compagni più deboli nelle scuole: Kick bullying, “Prendi a calci il bullismo”. Un altro dice Believe, “Credi” e non importa in che cosa, purché si creda. Feel the pulse, “Senti il polso”, allude ai malati di cuore, ma è anche un invito ad essere generosi, ad abbandonarsi all’emozione che fa battere il cuore.

Attenti all’acquisto
Siamo di fronte a un nuovo modo di dire no alla rassegnazione e all’egoismo? È un’esortazione a trovare valori perduti? Si può anche sorridere dell’ingenuità, ma bisogna riconoscere che è una moda senza sfilate, senza spavalderia. Anzi, è un’idea pacifica, allegra, ottimista. Forse per questo piace ai ragazzi. “Non temere niente”, rassicura il blu; “Celebrate la speranza”, suggerisce il viola; “Troviamo la cura”, promette il rosa.
È un distintivo che ha anche il pregio di non essere troppo costoso. Commercializzato dalle fondazioni scientifiche e dalle associazioni benefiche, il braccialetto costa un dollaro negli Stati Uniti, una sterlina in Inghilterra, due euro a Parigi. Il 70% dei ricavi dovrebbe essere destinato alla ricerca e alla solidarietà. In Italia, il braccialetto può essere acquistato su Internet o su alcune bancarelle: da 1 a 3 euro. È già arrivato nelle scuole e, manco a dirlo, in breve alimenterà il mercato dei falsi.
Le associazioni “no profit”, quelle attente a rispettare le leggi senza arricchirsi sulla pelle dei più deboli, avvertono: “State attenti da chi comprate”. Ma abusi e sfruttamenti, purtroppo, dilagano più dei braccialetti benefici. E anzi, riguardano anche loro.
Il quotidiano londinese Daily Telegraph ha scoperto che una parte di queste strisce colorate contro la povertà sono fabbricate in Cina dalla Tat Shing Rubber Manufacturing Company, nella regione dello Shenzhen. Un rapporto dettagliato accusa la fabbrica di lavoro forzato, senza nessuna misura di igiene e di sicurezza, con orari insopportabili, sette giorni la settimana, e paghe irrisorie. Dopo questa rivelazione è stato istituito un “controllo morale sul prodotto” e lo stabilimento cinese ha promesso “miglioramenti costanti”.

Tinte fosche
Anche la Nike, la più grande delle multinazionali che fabbricano scarpette e t-shirt, non ha perso l’occasione per sponsorizzare (e quindi essere a sua volta sponsorizzata) il nuovo simbolo. Il colosso americano padroneggia i meccanismi dell’economia globale. Ha solo 24 mila dipendenti in senso stretto, ma in realtà impiega 650 mila persone in 700 fabbriche a cui subappalta la sua produzione: il massimo reddito al minimo costo.
La maggioranza di quei dipendenti sono ragazzi e donne molto giovani, concentrati nei Paesi diventati le nuove officine del mondo: Cina, Thailandia, Corea del Sud, Vietnam, Bangladesh e poi in Messico e in tutta l’America Latina. Stipendi da nulla, orari da schiavi.
Da anni i sindacati e le organizzazioni non governative per il “commercio equo” assediano le multinazionali perché smettano di alimentare le nuove forme di schiavismo: lavoro minorile, orari massacranti, fabbriche-formicaio dove incidenti e malattie decimano i lavoratori.
L’11 aprile scorso a Dacca (Bengladesh) la Spectrum Sweater Ltd, una fabbrica di magliette costruita chissà come, è crollata uccidendo 74 giovani. Cucivano t-shirt per 700 taka al mese, mentre il salario minimo legale ne prevede 930 (11,5 euro). La tragedia ha ricordato che in Asia lavorare il tessile è rischioso come scendere in miniera.
Pochi giorni dopo la sciagura di Dacca, la Nike ha pubblicato sul suo sito Internet un documento che rivela le violazioni dei diritti dei lavoratori nelle fabbriche controllate. Fa nomi, indirizzi, fornisce dati sulla composizione etnica dei dipendenti, elenca le fabbriche che non hanno rispettato le condizioni di lavoro, la sicurezza e la salute, ammette abusi e maltrattamenti, confessa casi di sfruttamento.
La settimana lavorativa supera le 60 ore nella metà delle fabbriche asiatiche, con punte del 90% in Cina. In molte tessiture vige il divieto di andare in bagno e perfino di dissetarsi durante l’orario di lavoro. Se il braccialetto viene da questo quadro, fosco come quello illustrato da Charles Dickens nell’Ottocento, la speranza è che riesca a colorarlo con coraggio e allegria.

ROMEO REPETTO

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©AGOSTINO LONGO
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